martedì 22 dicembre 2015

MI RACCONTA UN RACCONTO






MAZZAMAURIELLO

“Se pane e cacio mi fai mancare,
sappi che assai avrai da penare”
(Ballata popolare)

Fulvia ha imparato presto ad apprezzare la campagna irpina: agli inizi di novembre i colori non sono affatto morti. Talvolta con la sanguigna si diverte a trarre schizzi dal paesaggio generoso di toni densi, avvolgenti.
La casa colonica di Ubaldo ha un aspetto ingrugnito, come se aspettasse di sputar fuori, da un momento all’altro, una farragine di lagnanze e di irrequietudini, masticate, rimuginate in piú di settant’anni di paziente manutenzione. A Fulvia piace, e ancora non l’ha visitata bene bene tutta.
Da quando sta insieme ad Ubaldo, è quella la mèta (perché no?, anche romantica) delle puntatine trasgressive nei giorni di fine settimana o durante il periodo estivo. Consumano una cenetta preparata su ordinazione in rosticceria ad Avellino, trincando con vinello locale, e poi a giocare davanti al caminetto, nudi e allegri.
Il resto della notte lo trascorrono al piano superiore, in un lettone dalla testiera di faggio antico, con un vassoio di cioccolatini e un grappino a portata di mano.
Fulvia è oggi in netto anticipo, ma poco male: esplorerà la casa, inaugurerà il nuovo copritavolo e le lenzuola in seta (tinta: azzurro oltremare) acquistate presso “Le Rose”. Due teste matte, lei e Ubaldo: sanno spremere la vita. I posticini piú esclusivi, gli abiti con la griffe, qualche grammo di cocaina.
Ubaldo s’è intanto assicurato un appalto coi fiocchi, e senza neppure correre il rischio di ormai imprudentissime mazzette. Fulvia lavora in banca ed è figlia unica di genitori separati. A mesi alterni, la mamma da Novara o papà Guglielmo da Teggiano le accreditano sul conto corrente una piccola somma, un regalino, un extra.
Non è nel fiore degli anni, Fulvia, né può considerarsi una bellezza: tappetta, dolicocefala, con manine e pieduzzi che, a ben badarci, risultano un tantinello rachitici rispetto al resto del corpo. Però ha sempre dedicato doviziose cure ai lustri capelli castano chiaro che, cotonati, le danno l’aria fatale, e soprattutto nascondono orecchiucce assai aderenti al cranio e un po’ troppo orizzontali, come nella raffigurazione dei folletti. Sa valorizzare, con ombretti dalle nuances sofficissime, gli occhi tondi e sporgenti, e, quando si concede la minigonna, penoso azzardo per una donna dalle gambe non perfette, calza scarpine décolletées dal tacco vertiginoso, col collarino che sfina la caviglia tozza.
Sicché passa per un donnino delizioso, a suo modo appariscente, e, non appena è a cosce larghe, vuoi sul materasso, vuoi sui ribaltabili di una Renault, vuoi sul marmo di una beccheria (anche questo ha sperimentato!), si sbarazza dei (falsi) pregiudizi e si fa beffe d’ogni scrupolo di ipocrisia morale. Col suo brigare, e grazie all’incontenibile carica erotica, è riuscita a distogliere Ubaldo da tutta una serie di relazioncine sparse, divenendone la donna fissa. E poiché Fulvia giudica che i tempi siano maturi, adesso, per il passo definitivo (ha trentadue anni, un’opzione per il piú fitto reticolato di rughe che mai si sia paventato negli incubi di una tardona prossimo-ventura, e deve affrettarsi, se vuole dare un nipotino ai genitori, ansiosi di farne l’erede di una non disprezzabile fortuna), ha stabilito che questo week-end sarà l’ultimo da nubile: ad Ubaldo inzucchererà la pillola accondiscendendo a favorirgli l’accesso all’ambíta nocciolina agrodolce fra le natiche, unica, calcolata remora nel corso delle loro olimpiadi scoperecce. Sarà come risarcirlo dell’imene che non toccò a lui violare: da attrice consumata, Fulvia ha convinto finanche se stessa di aver sempre strenuamente preservato l’ingresso di servizio da qualsivoglia entusiastica candidatura alla frequentazione. Non è neanche una vera bugia, poiché a sollazzarvici saranno stati in tre-quattro, e tanto di quel tempo fa, che ad esempio Fulvia stenta a credere come sia potuto accadere con tal Massimino, magro quanto uno stecco, ma dalla bega d’asino. Altro che il mignolino d’Ubaldo!
Non è proprio quel che si definisce uno stallone, Ubaldo: per fortuna, Fulvia ama cosí tanto il piacere che saprebbe godere anche ad un soffio di scirocco penetrato casualmente attraverso il velo delle mutandine; fisicamente, s’è abituata all’addome di lui, prominente, molliccio, all’assenza di pelo in quel corpaccione goloso di pastasciutta e manicaretti zeppi di calorie.
Il giro d’affari di Ubaldo e il tenore di vita che può garantirle hanno tolto la testa al chiodo, e Fulvia s’è caparbiamente innamorata. O cosí crede.
Riconosce parecchi aspetti fastidiosi nel ménage: tipo il russare di lui simile al suo scoreggiare non appena mette i piedi in terra, al mattino. Ma confida che, non appena diventata la moglie, tante cose cambieranno: gli toglierà il vizio di sparpagliare alla rinfusa, per la casa, biancheria ed effetti personali; gli farà perdere l’ossessione morbosa per la superstizione (considerare malaugurio un gatto nero se ti taglia la strada, collocare nel solaio della casa rustica, quella casa, un piattino di cibarie destinate al folletto protettore, mai offrire ospitalità, pane, pietà e confidenza a chi ha le vene negli occhi ed è portatore di malocchio).
Un’altra cosa, poi, di Ubaldo, che le dà tremendamente ai nervi, è il suo considerarsi cabarettista, brillantissimo intrattenitore, durante i parties, nel corso di pause negli incontri di lavoro, persino al ristorante compiacente o al night gestito da conoscenze: egli copre sé di patetico e Fulvia di avvampante imbarazzo. Possibile che non se ne renda conto, l’old-one-man-show del bischero?!!??!?
Al solo pensiero Fulvia freme di stizza. Dovrebbe, a proposito, salire in soffitta per lo stupido rito maniacale dell’offerta simbolica al plebeo lare casalingo. Figurarsi! Dà un’occhiata all’orologio: è ora di immergersi nel suo bagnoschiuma preferito, magari titillando il clitoride e stuzzicandosi la passerina. Tanto per riscaldarsi.
Dopo frizionerà con un tampone profumato le mammelle, l’inguine, i fianchi, le piante dei piedi di porcellana; sguscerà soddisfatta in un abitino rosso con scollo a barca di Krizia, crogiolandosi al tepore del focherello nella tavernetta. Ubaldo preannuncerà il suo arrivo clacsonando a distesa, e lei lo accoglierà radiosa, col desco apparecchiato per due, gli arrosti, i peperoni e il dolce, il vaso art déco pronto a ricevere il fastoso mazzo di rose opulente che l’uomo porta abitualmente con sé, assieme ai Ferrero Rocher e a una bottiglia di cherry.
Il copione è suppergiú lo stesso: la prospettiva del matrimonio aiuta validamente Fulvia a non stramazzare, vittima della routine. Ubaldo le sfisarmonica due coccole, lei gli cincischia la cravatta, ridacchiano da scemi, mettono su Gilbert Bécaud o Paul Anka (altro che i cantantini odierni!), seggono a tavola; egli è un tamarro molto cavaliere, le sorride, le sfiora il dorso della mano, fa scivolare verso il suo piatto, sornione, un astuccio che racchiude una gioia mediocre, che ella fingerà di apprezzare, spalancando gli occhi e atteggiando la bocca a un’esclamazione di meraviglia. I calici si riempiono, tintinnano nel cin cin, gli sguardi s’incrociano, ammiccanti. Si scambiano il resoconto acido o divertito dell’ultima settimana lavorativa, mentre Fulvia serve una seconda porzione di parmigiana e Ubaldo fa fuori un’ennesima fettona di pane scuro. A metà cena l’uomo si lascia sfuggire il tovagliolo e Fulvia s’infila carponi sotto il mensale per estrargli il mignolo dalla patta e praticargli un bollentissimo blow-job.
Ubaldo grufola, si slomba, esterna il proprio postribolare godimento; da par suo Fulvia finisce con l’eccitarsi sul serio e sollecita il trasferimento ai piani superiori. La torta millefoglie aspetterà.
È un tantino comica la scena di lui, col pisello eretto fuori delle braghe, che la segue per le scale, intontito, a deglutar saliva, mentre la donna arriccia le labbra, arruffa le chiome, scalcia le scarpine e si fa scivolare dalle spalle l’esigua stoffa dell’abito. Sotto ha solo pelle e profumo, e quel culetto a mille atmosfere che per la prima volta (lui crede) sarà da membro virile profanato.
Fulvia adora le coreografie: in camera da letto un candelabro rococò proietta ombre ubriache lungo le pareti, e su in cima all’altissima fumida volta; un artistico braciere, in cui ha disseminato grani e bastoncini di incenso siriano, rafforza la suggestione, a mezzo tra l’ironico decadentismo dannunziano di Pitigrilli e i pigmenti selvatici e osé di Colette.    
Ma il tocco di classe sono quelle lenzuola sfarzose, che invitano a commettere peccati carnali descritti con pruriginoso sogghigno da Giancarlo Fusco nei suoi aneddotici racconti di bordelli e case chiuse, delibando eccentriche portate nel boudoir raffinato di Sacher-Masoch.
Ubaldo si sveste con la bava alla bocca, da perfetto cafone conserva i calzini beige; Fulvia sa quel che lo arrapa e subito si posiziona a mo’ di capretta. La casa brontola, da vecchia imbellettata che si sostiene su fondazioni ormai macilente (ma, dalla collina, è il vento che fischia).
Qualcosa scricchiola su in soffitta. I due non ci badano. Sono, essi, soltanto schiocchi umidi, baci predaci e ansiti graveolenti di cibo e di alcool. Ubaldo non sta nella pelle. Sbaglia l’ingresso, manca ancora, sbuffa, bofonchia, impreca. Con mano esperta ella lo guida: può forzare il passaggio. Accidenti, se è stretto. Fulvia sente o simula un po’ di dolore. Dice basta, tanto per scena. Egli s’allupa. Spinge. Il dado è tratto.
Uno schianto dabbasso. Magari un’imposta che sbatte, o un tegame di rame impilato male tra altre stoviglie in disuso. Fulvia geme. L’uomo è intento a esternare il proprio altruismo: trattiene appena il fiotto impellente; vorrebbe che tutto si prolungasse, che la notte e la voluttà fossero, entrambe, materia elastica, frammenti d’eterno. Violenti colpi di reni fanno uggiolare le reti, i legni del letto. Uno spiffero gelido sfreccia nella stanza, sfiora i corpi degli amanti. Le essenze orientali pigliano allo stomaco.
Ubaldo erutta e si accascia. Fulvia approda al quinto orgasmo. I fiati si placano. La donna è gravata degli ottantanove chili di peso del maschio. È appiccicaticcia ed ha orrore del sudore. Con gentilezza lo scrolla: “Tesoro, ti spiace?
È stato grandioso…” – le biascica lui, versione tenero tricheco – “Tu sei stata grandiosa…” E soggiunge, con sincerità: “Grazie, amore.
Scostati, adesso, tiralo via: ho bisogno di una doccia immediata.
Ma la doccia dovrà aspettare.
Per quanto si sollevi e punti i gomiti sdrucciolando sulle stramaledette lenzuola di seta, e día strattoni col bacino, Ubaldo sembra incastrato nell’ano di lei. Il suo non ragguardevole fallo conserva una sofferente erezione, che certo non dipende dal desiderio di rinnovati sollazzevoli massaggi. A dispetto delle dimensioni, e del fallo rastremato in punta, l’asta intera pare essersi fusa in un solo blocco di carne con le mucose rettali della partner.
Che diavolo succede?” – protesta Fulvia, allarmata. E si divincola invano.
È inammissibile!”: Ubaldo non sa spiegarsi quel subitaneo, sciagurato priapismo. È ancora sopraffatto dallo stupore: il panico sta per irrompere, dilagherà non appena avrà completamente realizzato.
La ciotola!” – sbotta, trafitto da una saettante intuizione – “Brutta deficiente…la ciotola con gli avanzi per MAZZAMAURIELLO…
Cosa? Ma che vai cianciando? Cerca di trovare una soluzione…Chiamiamo qualcuno…Ci vuole un medico...una persona fidata…Se riusciamo ad arrivare al telefonino…Oddío! Oddío!Oddío!
Ma Ubaldo non l’ascolta piú. Singhiozza e gnaula disperatamente, in bilico fra disperazione e delirio. Tempesta di pugni la schiena, le ànche della compagna. E non sa ripetere altro: “Cretina! Ti sei dimenticata della ciotola col mangiare per MAZZAMAURIELLO! È un secolo che sorveglia la casa, e mai gli abbiamo fatto mancare la sua ricompensa…Adesso si vendica…Maledetta idiota bastarda! Erano fole, le mie, eh? È tutta colpa tua…tutta colpa tua…
Prima di perdere conoscenza (piú a causa dello shock che non in seguito alle percosse di Ubaldo), Fulvia ha modo di pentirsi amaramente per aver sottovalutato le credenze popolari, le quali, non di rado, contengono imprevedibili caratteri d’autenticità…
In un lampo, rivede la ciotola che prima s’è rifiutata di lasciare, in prossimità del soppegno (dimora eletta degli spiritelli domestici), colma di lesso, mollica di pane e castagne, come sempre Ubaldo le ha raccomandato di fare, e immagina le scene umilianti che si susseguiranno, lo scorno infinito, l’azzupposa ironia degli amici, la pubblicità maligna su “Cronaca Vera” e su analoghi rotocalchi a diffusione nazionale, lo scandalo in paese e in città, di quartiere in quartiere, di bocca in bocca…Ubaldo e Fulvia. Come cani…

                                                                                       ARMANDO SAVERIANO















Il casale
Fulvia in relax












La copula fatale
Come cani













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