domenica 10 aprile 2016

ADELMO - Racconto di Paolo Giannattasio





Ho un volto e delle mani. Orecchie sì, anche quelle. Guardo, scruto e memorizzo. Provo a decifrare e resto teso. Mi sorprendo quando qualcuno non capisce e pensa che io sia un pagliaccio. Faccio un segno piccolo e spero nella comprensione altrui. E quasi mai incontro esseri capaci di sensibilità e amorevolezza. Mi perdo nelle diverse anime del mio cuore quando il canale comunicativo è ormai appiattito. Sono come un uccello con le ali che non vola. Come la punta di una penna carica d’inchiostro che non scrive. Non c’è parola che possa descrivere il mio essere. Neanche se la spiegazione la portassi penzoloni al collo, capirebbero, quelli, intontiti dalle parole. Ci sono solo silenzi, segni e distanze perpetue per me. Nulla che possa ascoltare. Questo è il mio verbo.
So volteggiare nell’aria e guardarmi allo specchio. Tocco la punta dei miei piedi anche solo con il pensiero. Sento il battito del mio cuore e tutte le emozioni. Sento delle cose che non so spiegare. Sento e non sono le cose che voi ascoltate. L’orecchio è eterno e forse musicale; ma purtroppo la via è sbarrata e non passa proprio niente.
Gioco, palla, nascondino, ansia, fiatone, cono gelato, pantaloncino, erba del prato, ginocchia sbucciate, comodino con foto, ossa allungate, mamma che abbraccia, capelli da pazzo, occhiali dorati, mani unte, piedi neri, labbro che pronuncia, scarpa perduta, papà che legge, colore del cielo, mare che bagna, spiaggia serena, macchina ferma, labbro che sorride, vigile bianco, albero giù, pioggia di casa, rientri imprevisti, pomelli d’ottone, luce davanti, macchie di vita, libri distanti, forza nascente, muro, cuore, ansia, fumo, calza, stima, sensazione, rima, oggetti toccati e solite cose.
Tutto un flusso di azioni vissute. Toccate. Osservate. Distrutte. Pulite. Segnate. Sparite. Mai ascoltate. Mai parlate.
Mi chiamo Adelmo e sono sordo e anche muto. Sono sempre stato Adelmo. E sempre sarò sordo e anche muto. Un sordomuto che sbraita a suo modo senza vergognarsi.
Non scopri di essere sordomuto. Non è come quando ti ritrovi una specie di barba sul pene all’improvviso. O quando dalle ascelle cominciano a spuntare i primi peli. No. Quelli sono cambiamenti naturali che si presentano allo specchio o sotto la doccia con un lento preavviso. Perché un’idea della crescita te la sei già fatta guardando gli adulti.
Da bambino, era come se qualcuno avesse schiacciato il tasto mute, sul telecomando delle mie funzioni fisiche e aspettavo solo che poi si ricordasse di rifare la stessa azione e restituirmi la parola. È un’illuminazione improvvisa. Comprendi in un attimo che la tua strada è diversa e che esistono altre cose che puoi sviluppare e vivere. Anche senza parola. Anche senza ascoltare. Perché ognuno trova una via per comunicare. Anche uno come me.
Io comunico sì, ma come mi pare. So fare gesti ed anche segnali. Penso a una parola e poi ne penso due e poi ancora e ancora. Parole che non posso pronunciare e che per me non hanno suono. Poi penso alla musica. E a ogni parola accosto la mia musica. Una musica per vocale. Una musica per consonante. Una musica, per ogni singolo stato d’animo. Un suono. Due suoni. Tre suoni. Un non suono e uno. Un non suono e due. Un non suono e tre.

Amo la musica, ma non posso ascoltarla. Amo la musica e con essa parlo, mi descrivo, mi sostengo e faccio finta di essere normale, di avere voce e poterla usare. Ho messo al primo posto l’amore. Quello per cui uno sguardo dice tutto e non servono parole. L’amore era l’unica cura che avevo sempre cercato. Il perdersi ostentatamente negli occhi di una sconosciuta all’uscita di un bar o davanti alle vetrine di un coiffeur pensando e sperando di poterla amare più di come il migliore amante abbia mai amato prima di te.
Passeggio spesso e ben volentieri. Osservo le persone, ne scruto le movenze e per ognuno trovo un soprannome.
Sig. nasone, la donna barbuta, zia puzzona, sorella racchia e tizio zazzera. 
Passeggio sempre e vado soprattutto alla ricerca del bello. Colgo un profumo, appunto una rima nel mio taccuino, mi godo un raggio di sole mezzo pronunciato e trovo piacere nelle mie piccole cose. E tra un gesto e l’altro d’improvviso la vidi.
Una ragazza che passeggiava muovendo le labbra, tutta sola, al ritmo di una musica mentale. Fu amore eterno, pacifico, umano, onesto, dirompente di gioia e ansia. Fu amore invano, assente, vuoto, osceno, nudo e poetico. Fu amore come se fosse da sempre. Era lei, che avevo sempre amato. Lei nei miei sogni ad occhi aperti. Lei che sorride ogni notte e che non ritrovo mai nella realtà. Lei che sembra finta, e invece è lì che canticchia una musica a memoria e sorride, fiera, mentre osserva la vetrina di una libreria. Resta così. Non ti muovere!
Fatti osservare ancora un po’, te ne prego. Lascia che memorizzi ogni misura del tuo corpo. Lascia che la mia anima tenda alla tua. Lasciati a me. Ti curo io.

Mi avvicinai lentamente senza mai perdere le sue labbra dalla mia vista. Le avrei dato tutto me stesso in quello stesso istante. Se mi avesse chiesto il cuore, lo avrei strappato dal mio petto e posto nelle sue mani rosee. Sentivo sensazioni nuove, che mai, avevo provato prima. Mi sentivo gioioso e allo stesso tempo terribilmente solo. Ero pazzo di gioia e intontito dai sentimenti e triste per la mia limitazione verbale. Avrei voluto dirle cosa provavo e sperare nel suo reciproco amore; ma non potevo e la cosa mi fece perdere, da subito, il sorriso.
Posso leggere le labbra di una persona. Mi basta osservare la scansione delle parole ed è quasi come ascoltarla. Osservavo le sue labbra e riuscivo a musicare nella mia testa i versi, e quelle parole diventavano le nostre. Leggo spesso e poi memorizzo i testi delle canzoni, di cui però non conosco la musica. E allora la invento e muovo la testa come se fossi a un concerto solo mio, dove il cantante e lo spettatore sono un’unica cosa.
Era come se lei parlasse con me, ma da lontano, senza vedermi. Ed io cantavo con lei.
La mia idea romantica, il mio sogno di paglia. La ragazza sconosciuta non si era accorta della mia insistenza “occhiuta”, non sapeva chi fossi, non mi ascoltava. E come darle torto poi; in fondo ero uno dei tanti sguardi che la accompagnavano lungo il suo cammino, in quella affollata via del centro. Se lei avesse visto le mie labbra, se avesse notato come si muovevano all’unisono con le sue. Allora sì, allora non sarei diventato lo sguardo fra tanti e lei mi avrebbe finalmente visto. Forse sarei stato l’unico che, guardandola, avrebbe parlato con le sue parole, anche se le mie, l’ho detto, erano mute.

Non avevo speranza alcuna di poter avvicinare il mio amore, non sapevo come fare. Continuavo a seguirla con lo sguardo, ma ormai non cantavo più e le mie labbra erano tese e il mio sguardo triste. Si allontanò e sparì tra la folla fragorosa di quella domenica mattina. Ecco il dolore. Ecco l’ansia, la solitudine che annienta. Senza parole e senza amore.
Fu allora che pensai alla musica, non come verso, ma come sostituto della parola. Della parola che non potevo avere. Pensai allo strumento che avevo sempre amato e sognato un giorno di poter suonare: il clarinetto. Ero sicuro che l’idea della musica potesse funzionare, semmai fossi riuscito a ritrovarla. Le avrei dedicato il mio amore con la voce dello strumento.
Acquistai il mio primo clarinetto in si bemolle e corsi a casa. La prima cosa era imparare qualche nota romantica e correre da lei per suonarle la mia dichiarazione. Sarei rimasto davanti alla libreria, la domenica successiva, nella speranza che lei passasse di nuovo di lì. Il giorno del nostro possibile incontro si avvicinava e la mia mano tremante non riusciva più a suonare. Ormai avevo quasi rinunciato ad andare da lei e speravo che la domenica non arrivasse più, per non ammettere di averla persa senza mai averla avuta. La domenica arrivò ed io restai chiuso in camera, in attesa di qualcosa. A un certo punto mi alzai e decisi di andare a pattugliare quella benedetta libreria. Presi il clarinetto, m’incamminai. Ero teso e i miei passi impauriti. Arrivai davanti alla vetrina che mi aveva visto amante senza unione e restai fermo a lungo in attesa di vederla. Fissavo il clarinetto sperando di riuscire a suonarlo come avrei voluto. Un senso di oscuro smarrimento mi assaliva. I dubbi mi divoravano il cervello. E se fosse arrivata con qualcuno? Il fidanzato magari, oppure un’amica? Che cosa avrei fatto? Quanta ansia. Se questo è l’amore, allora è meglio non amare! Troppi spasmi. Troppi tuffi al cuore. 
Mentre valutavo se perseguire la strada dell’amante solitario, l’occhio sinistro comunicò qualcosa al cervello, che girava vorticoso con i miei dubbi. Era lei, proprio lei che arrivava dal fondo della strada, da sola, come sempre. Sudavo ed ero pronto a scappare per la paura. Poi mi feci coraggio, attraversai la strada e le andai incontro. Era a pochi metri da me ed io portai alla bocca il clarinetto e cominciai a suonare, ma capii che uscivano solo sbuffi e note senza senso. Non riuscivo a calmarmi, il battito accelerato del cuore mi faceva tremare e sudare. Basta, mi fermai e alzando lo sguardo vidi che lei mi stava fissando come spaesata: non riusciva a comprendere cosa volessi. Immaginai di aver suonato talmente male che lei, poverina, non riusciva a dire niente. Poi la ragazza alzò le mani e portandole a mezz’aria fece dei segni che conoscevo bene e capii qualcosa che mi fece sorridere. Mi disse, con le mani, <<scusa ma non posso sentire, sono sordomuta>> ed io, lasciando cadere il clarinetto, le dissi, sempre con le mani, <<anch’io!>>.
Ci sorridemmo e spalla a spalla, ci avviamo lungo la strada, fissandoci negli occhi.
Io sono Adelmo e sono sordomuto. La donna che amo si chiama Anna ed è sordomuta.
Oggi passeggiamo e cantiamo le nostre canzoni solo con le labbra e questo ci fa sentire liberi da ogni limite.
La musica di Adelmo non ha note, ma solo segni.


PAOLO GIANNATTASIO





1 commento:

  1. E' un bel racconto. Una scrittura veloce che non si piange addosso. Mi mette la fretta di quella voglia di comunicare attraverso la musica. La parola è musica. Finisce bene come ogni fiaba che si rispetti, e mi piace. Complimenti a Paolo Giannatasio

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